Il graphic design può salvarci la vita?

E’ scontato che farmaci od interventi chirurgici abbiano salvato, ad oggi, milioni di vite.

Ci siamo mai chiesti, tuttavia, non solo in veste di operatori sanitari, ma anche di semplici cittadini, quanto la comunicazione con i pazienti sia stata storicamente determinante per raggiungere lo stesso risultato?

Nella società attuale, fondata sull’immagine, sappiamo bene che un messaggio può essere veicolato e recepito attraverso l’uso della grafica, più rapidamente che con le parole.

Di qui il titolo di una piccola, ma straordinariamente stimolante esposizione temporanea, allestita nel 2018 presso la Wellcome Collection di Londra, un museo-fondazione tradizionalmente dedicato alle curiosità scientifiche e mediche.

Mi precipitai a visitare la mostra, avendone letto tempo fa la presentazione su un giornale ed avendo constatato che prometteva di essere ricca di spunti e riflessioni non solo per chiunque si occupi di sanità, ma anche per gli appassionati di pubblicità e design.

Le aspettative, in effetti, non sono state tradite. Ad un anno di distanza, rileggendo il resoconto che ora vi ripropongo, mi rendo conto che quanto ho osservato è ancora straordinariamente attuale.

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Il totem all’ingresso dell’esposizione.

Nella circa mezz’ora di visita, la mia attenzione è stata colpita da immagini, video, oggetti che esplorano un tema singolare, ma davvero affascinante, in grado di fondere mondi diversi: le numerose e varie applicazioni del design e della grafica pubblicitaria alla sanità, nei diversi contesti della prevenzione, ma anche dell’informazione al cittadino ed al paziente, dentro e fuori le strutture ospedaliere, per finire con gli studi di grafica relativi al packaging del prodotto sanitario per eccellenza: il farmaco.

Iniziamo da una considerazione fondamentale: non esiste prevenzione senza informazione. Affinché quest’ultima sia efficace, deve essere chiara e diretta.

Talvolta provocatoria.

Logico, quindi, che in ogni Paese d’Europa e del mondo le migliori menti pubblicitarie si siano spese per realizzare campagne che, talvolta, hanno avuto un impatto superiore alle stesse aspettative e destinato a durare per molti anni.

Ancora oggi, ad esempio, le sonorità inquietanti e disturbanti di questa campagna ministeriale di prevenzione contro l’AIDS di fine anni ’80 echeggiano nella mia mente:

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=k33ta6HBotc&w=560&h=315]

Chi non si ricorda, poi, di quest’altra, che fu anche oggetto di parodie comiche?

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=ZU3MG5pJzgc&w=560&h=315]

Non c’è dubbio che trasmettere angoscia paga: chi ha un’età compresa tra 30 e 50 anni sa bene quanto grande fosse lo spauracchio dell’AIDS negli anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo e quanto siano stati efficaci simili spot per diffondere la cultura dell’uso del preservativo nei rapporti sessuali, dapprima oggetto di tabù, come ben evidenziato nel secondo.

Sappiamo anche bene, purtroppo, che in tempi recenti l’AIDS ed altre malattie veneree, come la sifilide, stanno tornando a diffondersi proprio per effetto, tra le altre cose, dell’assenza di campagne informative e della mancata percezione, soprattutto nei giovani, della pericolosità di abitudini a rischio.

La “strategia della paura” costituisce un approccio psicologico molto diffuso nelle campagne di comunicazione, tanto da trovare seguito anche nella lotta al tabagismo (ogni fumatore che dia uno sguardo ai propri pacchetti noterà le scioccanti, ma reali, fotografie di pazienti colpiti da gravi patologie correlate al consumo di sigarette) e nella promozione della donazione di organi.

A tal proposito, date un’occhiata a questa recente pubblicità scozzese e notate le similitudini, nell’impostazione concettuale, con quella italiana sulla prevenzione dell’AIDS:

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=raMabDzN12s&w=560&h=315]

Molte furono le richieste di bandire questo spot, proprio per il senso di inquietudine trasmesso, ma il Governo scozzese, con visione lungimirante, decise comunque di mandarlo in onda, sostenendo che altre campagne più “soft” avevano fallito l’obiettivo. Nei due anni seguenti i fatti diedero ragione ai promotori dell’iniziativa: il numero dei cittadini iscritti al registro scozzese per la donazione degli organi incrementò addirittura del 242%.

La grafica, ovviamente, riveste un’importanza essenziale anche nella comunicazione con il paziente all’interno delle mura ospedaliere, iniziando dalla loro stessa architettura.

Mi spiace constatare, da questo punto di vista, che tra l’Italia ed i Paesi anglosassoni esiste ancora un divario importante e che va colmato sotto molti aspetti.

In primis, relativamente all’orientamento del cittadino-paziente nel contesto ospedaliero. Dove si trova il reparto X? Dove trovo lo studio del Dott. Y? Quante volte, come infermieri, ci siamo sentiti porre questa domanda, che spesso ci ruba tempo prezioso?

Osservate questo sistema di segnali in uso nell’ospedale giapponese di Umeda e nel policlinico giapponese di Katta.

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Anche nei nostri ospedali (per esempio al Moorfields Eye Hospital, ma anche in Italia, a Pescara) è presente una segnaletica colorata, sul pavimento, che guida letteralmente i pazienti lungo i corridoi della struttura, ma in Giappone i designer hanno compiuto un passo in avanti: l’uso estensivo del colore bianco trasmette un’idea di ordine e pulizia; il colore rosso delle indicazioni risalta ed è di facile lettura; le scritte presenti sui totem o sui montanti delle porte sono in cotone (ve lo dico io, anche se non si nota) e sono rimuovibili e lavabili.

Senza contare che le indicazioni sono bilingue, come in molti Paesi (in Spagna, ad esempio, ma non in Italia), per agevolare anche i pazienti stranieri, sempre più numerosi.

Magari più che di pulizia si riceve un’impressione di futuristica e fredda asetticità, ma questo è solo il mio punto di vista.

Le immagini trasmettono concetti ed informazioni, insomma, in maniera più efficace delle parole, tanto che nell’approccio con il paziente accade sempre più spesso che medici ed infermieri comunichino servendosi di disegni, fotografie, modellini di organi o sezioni del corpo umano. Questo approccio snellisce i tempi di visita, ottimizza il trattamento ed aumenta la compliance del paziente, soprattutto quando quest’ultimo non comprende la lingua del sanitario od è illetterato.

Date uno sguardo, per esempio, alle tavole denominate Communi-card, sviluppate dall’agenzia di design Poulin + Morris negli anni Ottanta per il Mount Sinai Hospital di New York proprio per rendere più semplice, per il paziente, la descrizione della sua sintomatologia e soprattutto per localizzare la natura del dolore sofferto. Ad oggi, le Communi-cards (ve ne sono di due tipi) sono in uso in oltre 150 ospedali negli Usa ed in Canada.

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Oltre ad essere bilingue ( in inglese e spagnolo), le tavole visualizzano graficamente le più comuni domande che possono essere rivolte ad un paziente, il quale può rispondere semplicemente indicandole.

La semplicità e la chiarezza nella fruizione del prodotto visivo sono anche alla base dei numerosi leaflets, ovvero dei libretti illustrativi, che in Inghilterra e nei Paesi anglosassoni in generale permettono ai pazienti di informarsi sulla loro condizione o sulla procedura chirurgica che andranno ad affrontare. Ogni Trust ne mette liberamente a disposizione davvero un’infinità.

Il Moorfields peraltro, rivolgendosi ad una “clientela” affetta da impedimenti visivi, ha elaborato per i suoi leaflets una serie di accorgimenti, ad esempio tipografici, mirati ad agevolare la lettura.

E’ comunque sul packaging del farmaco – ovvero sul confezionamento – che si è maggiormente concentrata la creatività dei pubblicitari, non solo nella scelta dei caratteri (fonts) dei prodotti, ma anche sulla scelta dei colori, delle dimensioni e della forma della scatola, che dovevano restituire, anche in questo caso, un’idea di chiarezza e praticità nell’uso del prodotto.

Ecco perché ad esempio, quasi tutti i farmaci presentano una scritta con caratteri di colore nero su un ampio sfondo bianco; fu l’azienda svizzera Geigy (oggi scomparsa), a dettare scuola in questo, a partire dagli anni ’60.

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La chiarezza che nasce dalla pulizia del design, in questo caso, è determinante anche ai fini della sicurezza del paziente e dell’operatore, in quanto riduce sensibilmente il rischio di confondersi e di somministrare (od assumere) prodotti con nome o grafica simile, ma diversi.

Quanto anche la stessa industria farmaceutica debba compiere passi in avanti da questo punto di vista, ce lo ricorda la Raccomandazione n.12/2010 del Ministero della Salute sui farmaci look-alike/sound-alike, mirata proprio a fornire accorgimenti a farmacisti ed infermieri. In particolare, per evitare errori derivanti dal dispensare o somministrare farmaci con aspetto o nome simile.

La mostra regala anche un breve accenno ad un tema ancora estraneo al contesto della sanità italiana, soprattutto quella pubblica: la brandizzazione del servizio sanitario, ovvero la sua trasformazione in marchio.

Nel 2010, ad esempio, la Svezia decise di privatizzare il servizio di farmacie ospedaliere, dapprima gestito dallo Stato, che fu acquistato da alcune private equities (società che gestiscono fondi di investimento, che crearono un marchio denominato Vardapoteket.

Con l’obiettivo di rendere più accattivante l’acquisto di prodotti, non solo farmaceutici, le farmacie vennero completamente riprogettate dallo Stockholm Design Lab, che idearono un layout che richiamava quello di parti del corpo umano, come potete notare in foto.

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Brandizzare un servizio o tutto il sistema sanitario, comunque, non necessariamente coincide con il privatizzarlo. La stessa modalità, ad esempio, può essere funzionale alla realizzazione di prodotti da vendere poi in beneficenza, come pupazzi o bambole destinate a finanziare un ospedale pediatrico.

Proprio il Regno Unito, inoltre, offre il più esemplare modello di sistema sanitario divenuto marchio. “God save NHS”, Dio salvi l’NHS, è un commento spesso presente nei feedback dei pazienti, e testimonia il rilievo assunto nei decenni da un’organizzazione che, a differenza del nostro SSN, ha puntato molto sulla sua identificazione con un logo e con una sigla, presente su tutti i prodotti destinati al cittadino, dai leaflets alle buste dei farmaci, piuttosto che su una impalpabile (concettualmente) idea di network di strutture ospedaliere e servizi territoriali.

In Gran Bretagna, la Sanità non equivale al Ministero, al Governo od alla Regione: è solo ed esclusivamente l’NHS, un totem concettuale che è parte integrante della società britannica e che gli stessi cittadini spesso intendono tutelare, anche contro la stessa politica ed i suoi programmi, tanto da essere stato definito dall’ex Cancelliere dello scacchiere Nigel Lawson, “religione nazionale”.

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Non è un caso che, di recente, su alcuni gruppi Facebook ed associazioni, in Italia, siano state presentate le prime richieste di petizione per creare un logo del SSN, proprio per renderlo un’entità meno astratta e più facilmente identificabile concettualmente dalla popolazione e per segnarne anche il distacco dalla stesso odiata, inefficiente e talvolta corrotta classe politica che ne tira le redini.

Al termine di questo excursus sui temi della mostra, è evidente che il design e la pubblicità hanno contribuito a salvare molte vite, soprattutto nell’ultimo secolo.

Resta però in piedi la domanda se una tecnologia, frutto di studi di design, possa di per sé salvare vite, senza il tramite dell’intervento umano.

La risposta è positiva: osservate, ad esempio, questi pannelli (billboards), molto simili ai moderni totem pubblicitari, posti lungo le strade delle principali strade brasiliane a partire dallo scorso anno, per contrastare l’epidemia del virus Zika, trasmessa da una particolare specie di zanzare, causa di gravi malformazioni fetali.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=79uqMKUoIjE&w=560&h=315]

La luminosità dei billboards, unitamente a piccoli dispositivi in grado di emettere sostanze spray con odore simile a quello del sudore e del respiro umani, attira centinaia di zanzare nel raggio di 2,5 km, e le intrappola sulla superficie viscosa del pannello, lasciandole poi morire per disidratazione.

Il prossimo passo saranno forse robot, progettati dall’uomo, che concepiranno a loro volta altre tecnologie per salvare vite umane, fino ad arrivare al giorno in cui l’uomo dipenderà dalle tecnologie per salvare se stesso?

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