Storia e attualità dell’infermiere prescrittore nel Regno Unito.

Il nurse prescriber, cioè l’infermiere che prescrive farmaci, è ormai una figura universalmente accettata all’interno del National Health Service britannico.
Oltre 73.000 infermieri e ostetriche, ad oggi, sono stati abilitati e di fronte al successo dell’iniziativa, ad altri professionisti non medici – ad esempio fisioterapisti o farmacisti – è stata riconosciuta la stessa competenza.  

Le prime proposte sull’estensione agli infermieri delle competenze prescrittive risalgono al 1986, quando il Cumberledge Report suggerì che l’accesso dei pazienti alle terapie poteva essere reso più efficiente, se gli infermieri di comunità fossero stati messi in condizione di prescrivere alcuni farmaci, come medicazioni per lesioni da pressione ed unguenti, piuttosto che attendere per ore che il medico di famiglia preparasse la “ricetta”.

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Bisognerà tuttavia attendere il 1992 ed il “Prescription by Nurses etc. Act”, perché le raccomandazioni contenute nei rapporti ministeriali diventassero legge ed altri 14 anni, affinché venisse abolito il formulario (Formulary), che inizialmente limitava il numero dei farmaci prescrivibili dagli infermieri.

Accanto a questi ultimi, con il passare degli anni, la competenza prescrittiva si è gradualmente estesa ad altre figure professionali e la Gran Bretagna è il Paese che ad oggi vanta l’elenco più numeroso al mondo di non-medical prescribers (NMP): farmacisti, optometristi, dietisti, fisioterapisti, podiatri, tecnici di radiologia.

Ogni categoria professionale è comunque abilitata alla prescrizione solo nel suo ristretto ambito di competenza, ad esempio in relazione ad alcune condizioni oculari, nel caso degli optometristi.

Un’ulteriore limitazione è poi inerente alla distinzione tra le due figure dell’indipendent e del supplementary prescriber.

Mentre il primo è autonomamente responsabile per la valutazione (assessment) del paziente, la diagnosi e la prescrizione, operando quindi come “clinical decision maker” nella gestione del paziente, il supplementary prescriber si muove invece nel più ristretto ambito di una pianificazione assistenziale concordata con il medico. Vi è poi una terza categoria, quella dei community indipendent nurse prescribers, che però opera esclusivamente sul territorio e può prescrivere solo farmaci contenuti in uno specifico formulario.

La formazione degli NMP è rigorosa ed il requisito indispensabile per accedervi consiste nell’aver maturato alcuni anni di esperienza professionale, nel caso degli infermieri tre, di cui almeno uno nell’ambito clinico in cui intendono poi prescrivere.

Il programma formativo comprende almeno 26 lezioni teoriche e 12 giorni di tirocinio, indicati come Period of Learning in Practice (periodo di apprendimento sul campo), svolti sotto la supervisione di un medico, il Designated Medical Practitioner (DMP).

Il complesso delle competenze acquisite attraverso la formazione, ovvero il Royal Pharmaceutical Society’s Prescribing Competency Framework (aggiornato a Gennaio di quest’anno), deve poi essere valutato attraverso un “summative” ed un “formative assessment.

Benché non siano state definite modalità univoche da seguire, si tratta di due differenti tipologie di “esame”, di cui il primo determina il livello di preparazione dello studente al termine del corso di formazione e comprende un esame di farmacologia ed uno di calcolo dei dosaggi (numeracy assessment). Il secondo afferisce invece ad uno specifico momento formativo, in genere al periodo di Learning in Practice ed è svolto in collaborazione con il medico supervisore.

Così come accaduto in altri Paesi del mondo ed ora sta avvenendo in Italia, il dibattito sull’estensione della competenza prescrittiva a professionisti non medici e la successiva regolamentazione normativa ha suscitato accese polemiche e resistenze da parte della classe medica anche in Gran Bretagna.
Ai nostri giorni, però, un infermiere britannico che prescrive farmaci rientra nella routine quotidiana di molti setting assistenziali e nessuno sembra farci più caso.

Resta però la domanda se si tratti di una scelta che ha consentito un miglioramento del sistema sanitario nel suo complesso. Si è aumentata l’efficienza? I non-medical prescriber sono altrettanto sicuri? Proprio sul tema della sicurezza dei pazienti, anni fa, si è concentrata la maggior parte delle obiezioni della classe medica britannica.  

Paradossalmente però, in un quarto di secolo non sono mai stati prodotti studi su larga scala che dimostrino che la compartecipazione dei non-medical presciber sia una decisione meno sicura rispetto all’organizzazione tradizionale del momento prescrittivo, cioè la sua attribuzione alla sola figura medica.

In particolare, vi è carenza di ricerca sull’impatto dell’estensione della competenza prescrittiva ad altri professionisti e sulla percentuale di errori da loro commessi.

Un’analisi di quasi 125.000 prescrizioni, condotta di recente nel Galles (Ashcroft et alia, 2015) e mirata a confrontare gli errori commessi da medici al primo anno post-laurea con quelli di medici anziani ed altri prescrittori non medici, incluse nel campione solo l’1% di ricette compilate da altri professionisti.

Altri studi, pur evidenziando lacune formative dei prescrittori non medici, soprattutto nelle interazioni tra farmaci, hanno però evidenziato una sostanziale appropriatezza prescrittiva.

Nonostante alcune aree grigie, quindi, oltre 25 anni di esperienza hanno generato un clima di fiducia e portato ad una generale accettazione dei non-medical prescribers: i feedback di professionisti (medici inclusi) e pazienti sono sempre stati positivi in tutti gli audit finora condotti. In alcune aree, come la diabetologia e la dermatologia, vi è ormai la costante percezione, da parte dell’opinione pubblica, che la presenza di un prescrittore non medico garantisca maggiore flessibilità ed accessibilità degli appuntamenti, migliore continuità delle cure e complessivamente uno stile della consultazione più improntato al “caring”.

I pazienti, insomma, si sentono assistiti e controllati meglio, mentre i medici riportano un generale miglioramento del teamwork e la possibilità di dedicare più tempo ai casi acuti e più complessi.

Visto il crescente problema, in molti paesi sviluppati, della scarsità di professionisti della salute, servono al più presto soluzioni organizzative innovative, mirate ad un rafforzamento della cooperazione interprofessionale, anche attraverso la rottura di alcune barriere, che tradizionalmente segnano i confini tra le varie figure.

L’estensione delle competenze prescrittive ai professionisti non medici è quindi una tra le diverse proposte di cui non si può che auspicare l’estensione anche a paesi come l’Italia, in cui manca ancora una normativa al riguardo, proprio per avere vantaggi di efficienza e rapidità nella cura del paziente.   

Luigi D’Onofrio

Italian Nurses Society

Bibliografia:

  • Ashcroft D., Lewis P., Tully M., Farragher T., Taylor D., Wass V., Williams S., Dornan T. (2015). “Prevalence, nature, severity and risk factors for prescribing errors in hospital inpatients: prospective study in 20 UK Hospitals”, Drug Safety, 38(9):833-43;
  • Cope, L, Abuzour, A., Tully, M. (2016), “Non-medical prescribing: Where are we now?”, Therapeutic advances in drug safety, 7(4), pp.165-172;
  • Dowden A., (2016). “The expanding role of nurse prescribers”, Prescriber, 27(6), pp.24-27.
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